Il giorno due del Tempelhof Sounds di Berlino, quindi l’11 giugno, si differenzia un bel po’ rispetto al primo: vuoi per la line-up, per il pubblico o l’organizzazione che prova a migliorare.
L’unica pecca che ho trovato in questo festival è la sequenza delle band che si succedono sui vari palchi: forse sarebbe stato opportuno seguire band che si collegano tra di loro su uno stesso palco, di modo da spostarsi più facilmente (dopo gli Idles, per esempio, è stato molto difficile recarsi a seguire un’altra band che iniziava immediatamente dopo di loro).
Tuttavia sappiamo che è un festival e le scelte, si sa, devono essere fatte.
Il sabato del Tempelhof vedrà come headliner una di quelle band che sono riuscita a seguire fino al 2009, poi ne sono rimasta così schifata dal loro cambio di genere da lasciarli andare per la propria strada: i Muse.
La giornata inizia col set degli Avalanches sul palco principale del festival, il Supersonic.
Queste tre giornate di festival sono state molto belle, col sole e un caldo che a Berlino non ti aspetti.
Alle 12.30 vedere e ballare sugli Avalanches è l’altro aspetto insolito: per chi conosce il duo australiano, sa che propongono musica elettronica \ sperimentale e dance. Un live simile è prevedibile per concludere – bene – la serata, ma non a quest’ora, dove gran parte del pubblico, me compresa, deve ancora riprendersi dal giorno precedente.
Rumorosi, fin troppo per un inizio giornata, folla in visibilio e live set che sembra non terminare mai: diciamocelo, la voglia di chitarre prevale su tutto (e anche quella di avere un alto contenuto di caffeina in corpo).
The Gardener and the Tree.
Nel palco Vibration, subito dopo gli Avalanches, inizia questa band su cui le informazioni a riguardo sono state molto difficili da trovare: arrivo al loro set, e resisto anche poco perché il genere stona un po’ con i miei gusti musicali, e so solo che vengono dalla Svizzera e hanno all’attivo due album, uno del 2018 e uno del 2021.
La curiosità, però, mi spinge a seguire il loro live.
La band propone un folk-pop\ alt-rock dalle influenze di stampo americano e la voce del frontman, nonostante sia ottima per quanto riguarda l’intonazione, ricorda un bel po’ quella di una band proveniente da un posto desolato del Texas.
Vuoi per il genere che non sia il mio e quest’intonazione monotona, seppur molto profonda e ben bilanciata, dopo cinque brani decido di spostarmi nuovamente per seguire altro.
Wolf Alice.
Nonostante mi sposti per vedere le HINDS, mi tocca ritornare al palco Vibration: in contemporanea al gruppo spagnolo, ci sono i Wolf Alice.
Le HINDS le salto solo per una ragione: le vedrò molto presto a Zagabria, dato che sono un gruppo esilarante, al femminile e che seguo più che volentieri: il mio appuntamento con loro è rimandato a breve.
I Wolf Alice, che non ho mai visto prima di oggi, mi sorprendono tantissimo, anche se dopo mezz’ora (il concerto loro è di 45 minuti), andrò a seguire l’intero set di una “band troppo sopravvalutata”.
La band capitanata da un’incredibile Ellie Roswell viene accolta dal pubblico del Tempelhof con un’energia e un calore incredibile, emozioni che la stessa band trasmetterà a noi del pubblico.
La band propone un live energico e allettante, ma altresì dolce e con note di malinconia: se dovessi paragonarlo a un altro gruppo, direi sicuramente Garbage o The Cardigans, vuoi per la maestosa energia della frontwoman e per la tonalità proposte che mi ricordano proprio Shirley Manson o Nina Persson.
Oltre alla figura perfetta della frontwoman, vi è un marcato muro sonoro piuttosto importante, dato non solo dalle esplosioni delle chitarre, ma dalla linea di basso imponente e suggestiva.
Il set dei Wolf Alice, inoltre, fa comprendere una cosa essenziale: sono al 100% una live band in grado di comunicare diverse sensazioni al pubblico anche in un contesto grande e differente come quello di un festival. Coinvolgenti sì, ma in grado di stabilire questo rapporto ravvicinato con chi li segue: non oso immaginare cosa riescano a fare in un altro contesto.
IDLES.
“Non mi interessa chi suona: io mi alzo da terra solo quando stanno per cominciare i Muse”.
Questa la dichiarazione di una ragazza che non ha idea di chi siano e che genere propongano gli Idles.
Per quanto mi riguarda, decido di raccogliere i capelli e sistemarmi i lacci delle scarpe, di modo da non inciampare e non ammazzarmi nel pogo che avverrà tra poco: non ho mai visto gli Idles in concerto, ma li conosco piuttosto bene e non credo che la gente ami stare ferma nel corso dei loro live.
Non so, poi, che fine abbia fatto quella ragazza e non voglio nemmeno pensare a tutti quei “sono troppo sopravvalutati” che ho sentito dire prima di partire per questo festival, sia nei confronti di questi che per quel gruppo di Dublino che cresce anno dopo anno e che suonerà il terzo giorno.
Se Joe Talbot e compagni si meritano tutto questo successo è perché sono una live band mostruosa e lo si capisce in particolar modo quando i tuoi vestiti decidono di restarti addosso per tutta la serata a venire, oppure non riesci a procurarti una birra, un drink o dell’acqua perché sei completamente disidratato.
Dopo questi anni di pandemia, stare così attaccata ad altre persone sembra incredibile: per gli Idles siamo in tantissimi e non vediamo l’ora che questo concerto abbia inizio.
Mark Bowen, alla chitarra, si presenta con un vestito lungo, da donna ovviamente, che mi ricorda troppo Florence Welch, salvo magrezza e barba (più qualcos’altro che si vedrà molto bene quando farà crowd surfing): se non ci fosse Talbot avremmo un altro frontman con i fiocchi.
Crudi, reali, l’espressione vivida degli imprevisti che ti riserva la vita, antifascisti, molto incazzati nei confronti di chi cerca di ostacolare i diritti umani, politici: gli Idles, per cercare di far dimenticare a tutti i propri problemi (sì, nei loro testi c’è pure la tematica della salute mentale), esigono che il pubblico si ami, quindi deve spaccarsi in due e scontrarsi in un lungo e caloroso (anche doloroso) abbraccio e questo è il messaggio che ci ripete Talbot più volte nel corso di questo incredibile set fatto di chitarre altissime e una batteria che pare scatenare una tempesta.
Una band molto diretta, in cui le influenze punk e post punk vengono fuori spontaneamente e raccontano, urlando, il mondo schifoso (anche personale, dato che Talbot ne ha passate tante) in cui viviamo.
Uno sfogo incredibile, fatto anche di momenti alquanto divertenti: i pensieri, grazie a questo concerto a dir poco esilarante ma che fa aprire gli occhi, svaniscono. Anzi, è come se tu li sudassi traccia dopo traccia.
Gli Idles sono così, non amano per forza l’equilibrio: del resto è davvero dura stare in piedi durante un loro concerto.
Subito dopo il loro concerto mi sono messa a cercare una parola che potesse esprimere tutto quello che la band di Bristol ha proposto live: “Geborgenheit” mi è sembrata la più opportuna, ovvero “la sensazione di sicurezza che si prova stando vicini alle persone a cui si vuole bene”. Gli Idles provocano questa sensazione, vuoi per gli “abbracci” dati alle persone intorno a te o per la sensibilità ineccepibile che ha questa band nei confronti del mondo.
Uno scontrarsi continuo, in tutti i sensi, di sensazioni, emozioni e tantissima rabbia.
Barns Courtney.
Francesca mi ha consigliato di vedere quest’artista britannico, che, tra l’altro, ha aperto a The Who, Libertines e Blur: non vuoi andare, stremata e assetata, allo stage Echo, dove intanto senti le ultime canzoni dei Maximo Park, e seguire il set di un personaggio del genere?
Non so cosa aspettarmi, dato che vengo circondata da un pubblico piuttosto giovane, pieno di brillantini sul volto e fin troppo euforico: ok, il ragazzo è parecchio conosciuto e io ignoravo la sua esistenza.
Quando Barns Courtney sale sul palco, accompagnato da una band vistosa che -ussignur- ricorda troppo quegli italiani che hanno aperto gli Stones, mi viene voglia di scrivere a Francesca e chiederle: ma chi diamine vai a consigliarmi? La versione britannica dei Maneskin, accidenti?.
Mettendomi una mano in faccia, poiché letteralmente intrappolata da questo pubblico, mi dico di resistere e vedere se lui merita oltre l’apparenza.
ECCOME SE MERITA.
Non so se è per prendere in giro gli eccessi, prendersi in giro o altro, ma Barns Courtney è un frontman fantastico: oltre ad avere una voce incredibilmente variabile e un atteggiamento da rockstar del periodo Glam, ADORA svolgere il suo lavoro e stare a stretto contatto col pubblico che lo venera.
Vogliamo parlare del chitarrista con atteggiamento Hard Rock americano e con pantaloni così stretti che sento dolore per lui? Bene, Barns Courtney è accompagnato sul palco da una band a dir poco incredibile in grado di sperimentare sonorità che ripassano blues, punk, glam e pure cantautorato.
I ragazzi più giovani coi brillantini sul viso sono in visibilio per questa personalità impetuosa che si presenta con stivaletti bianchi sistemati con dello scotch e un buco nei pantaloni: “Guardate qui cosa ho combinato? Ma chissenefrega!”.
Aggressivo, sensuale e trasformista: un frontman che sa perfettamente unire show, musica e grande personalità.
Implacabile.
Muse.
Sono passati tredici anni dal mio ultimo live dei Muse e già allora, nel 2009, la mia tolleranza nei loro confronti era pari a zero.
L’intento era andare a vedere una band che suonasse in contemporanea a Bellamy & co., ma altro non c’era, quindi sono stata costretta ad ascoltarmeli.
La band si presenta sul palco con maschere che, anche meno, non siete i Daft Punk, e fuoco e fiamme: la scenografia, magari, è ridotta perché lo stage di un festival è differente, ma qualche effetto c’è.
Non ho idea di cosa siano (un genere trashissimo, sicuro, con effetti pop o sonorità di un rock troppo commerciale e non ben sperimentato) le canzoni degli ultimi (tredici) anni, quindi abbiate pietà, ma riconosco: “Hysteria”, scambiata con “Stockholm Syndrome”; “Citizen Erased”; “Time is Running Out”; “Plug In Baby”; “Starlight”; “Knights of Cydonia” e “Dai, quella con gli orsetti cattivi” (“Uprising”).
Non ho niente da dire sulla qualità del concerto proposto dai Muse: lo si voglia o meno, sono degli ottimi musicisti; per le doti vocali del Bellamy, invece, non ho tanti pareri positivi.
Il frontman, per quanto sia bravo in certe tracce, non riesce a raggiungere e a prendere mai la nota giusta in canzoni più veloci: non ci sta dietro e perde il ritmo, difatti perde punti proprio su quella canzone che mi piaceva tantissimo anni fa, ovvero “Citizen Erased” (tristezza vederla cantata da 2-3 gatti, quando Bellamy chiede a chi ci fosse in passato: alzo la manina insieme a un duecento persone – forse anche meno) in cui, praticamente, perde la voce nella seconda strofa e la recupera solo nel finale al piano (la parte che più merita); terribile Hysteria eseguita a una velocità ridotta per far sì che Bellamy non sbagli nuovamente.
I sing along su canzoni a me sconosciute non mancano e questi seguono anche sulla classica “Time is Runnng Out” e la solita “Starlight”: forse le due, insieme alla finale “Knights of Cydonia”, meglio eseguite questa sera, almeno a livello vocale.
Orribili le false speranze sull’intro di Space Dementia, di cui la band propone solo la intro.
Insomma, i Muse si sono evoluti verso una direzione a loro più comoda: tutti i musicisti lo fanno, ma, ecco, non sono più una band per trentenni+, o forse sì, dipende dai gusti musicali che uno ha.
Forse ci rivediamo tra altri 12 anni, magari se ricapitano a un festival dove non c’è nessuno da seguire.
A domani con la review del terzo giorno di Tempelhof!