Recensioni: The 1975 – Notes on a Conditional Form

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a cura di Roberto Duca

Parto da un’osservazione personale non richiesta ma che funziona da preambolo fondamentale per questa recensione: io non sono un fan dei 1975. Sì, penso che siano una band con delle capacità di songwriting fuori dalla norma nel mainstream contemporaneo. Sì, credo che io e Matt Healy, l’eccentrico leader, ci troveremmo bene a parlare davanti a una birra dei nostri dischi emocore preferiti e di come Mike Kinsella sia per noi una divinità contemporanea. 

Ma comunque, questa mia simpatia nei confronti della band inglese più in voga del momento non toglie il fatto che l’unico disco che io abbia veramente amato sia il secondo, intitolato, come se fosse un album post-something, I like it when you sleep for you are so beautiful yet so unaware of it, con i suoi ritornelloni assurdi e le melodie sintetizzate sfacciatamente pop accompagnate a testi e momenti molto intimi – ma senza disdegnare qualche strumentale che va nelle direzioni dell’ambient e del post-rock. Il primo, omonimo, album non l’ho mai veramente capito, mentre il terzo, A Brief Inquiry Into Online Relationships, mi ha preso molto poco, sebbene ci siano pezzi meritevoli di molte attenzioni. Il problema di questi ultimi due dischi, ma che nel sophomore sono riuscito a superare (forse perché meno accentuato, non saprei) è la, per me, eccessiva prolissità che, se da un lato può sembrare una presa di posizione contro la poca tendenza degli artisti contemporanei pop alla forma-album, dall’altro rischia di accentuare un’intrinseca pomposità che, a dirla tutta, poco si sposa con il prodotto 1975, a parere di chi scrive. Forse mi manca qualche pezzo che non mi permette di capirli veramente fino in fondo. Forse sono solo vecchio. Ma è anche questa una parte della critica, no? Ché se prendi solo le opinioni dei fan sfegatati risulta un po’ falsata. 

 

Con questa premessa, mi approccio alla quarta fatica in studio dei 1975, intitolata Notes On A Conditional Form. L’album è stato rimandato per tipo un anno, registrato in un sacco di studi diversi mentre i Nostri erano in tour e, di conseguenza, mixato in modo altrettanto frammentario.  Sono 7 i singoli che ne hanno anticipato l’uscita, rilasciati nel corso dell’ultimo anno: sembrerebbero tantissimi, ma è tutto relativo visto che hanno avuto il compito di dare un assaggio di un’opera mastodontica composta da 22 tracce (un kolossal in musica in pratica) dalla durata di quasi un’ora e mezza. Il che non è per forza un problema, ma ci sono diversi però: il primo è che, ovviamente, sia per scelta che per necessità, si presenta molto vario; il secondo, è che i pezzi filler ci sono e si riconoscono, tra strumentali orchestrali belle di per sé ma poco funzionali e intermezzi di difficile definizione (e utilità). Quindi, il flow di questo NOACF è abbastanza problematico, ecco.

Il fatto, però, è che nei momenti alti i pezzi sono veramente molto, molto belli. Spiccano, ad esempio, i sette singoli: la già citata People, che sembra un pezzo dei mewithoutYou coverizzato dal Marilyn Manson degli anni ‘90; l’intimismo sintetico di Frail State of Mind; il pop britannico di Me & You Together Song; il folk futuristico di The Birthday Party; il momento acustico featuring Phoebe Bridgers di Jesus Christ 2005 God Bless America; la new wave 80s di If You’re Too Shy (Let Me Know); e, per finire, la lettera d’amore verso i compagni di sorte della band rappresentata da Guys. Ma non solo, meritano molto anche le non-single track Roadkill e There Because She Goes, momenti a tratti vicini all’alt-country dei Pinegrove, la ballata per piano e voce Don’t Worry, ma anche l’elettronica tropicale di What Should I Say e le sperimentazioni ritmicamente storte di Bagsy Not in Net.

Ma oltre alle tracce citate, ci sono altri tanti pezzi: l’intro, intitolata ritualmente The 1975 come nelle precedenti fatiche discografiche, è composta da quasi 5 minuti di Greta Thunberg che parla su una base strumentale minimalistica – e sì, il discorso è più che mai relevant, ma il pezzo lascia il tempo che trova e si propone per un facile skip. Neanche il tempo di partire con la seguente People che subito ci si trova di fronte alla strumentale orchestrale The End (Music For Cars) che rallenta fin troppo presto il disco e, nonostante sia ottima come traccia a sé, risulta sterile inserita in quella posizione. Così come Streaming, che si rivela un intermezzo non particolarmente richiesto, o i quasi 6 minuti techno di Having No Head, più avanti. Le restanti tracce si muovono tra l’elettronica a tratti house, a tratti idm (Yeah I Know, I Think There’s Something You Should Know, Shiny Collarbone), esperimenti apprezzati ma non sempre riusciti, e qualche eco gospel e hip hop (Nothing Revealed / Everything Denied, che potrebbe essere un pezzo di Kanye West; Tonight). Il tutto accompagnato, ovviamente, da discrete quantità di pop più che apprezzabile e altri momenti acustici (Playing On My Mind). A parte l’inutilità e la poca riuscita di qualche momento, non si tratta di pezzi brutti se presi singolarmente, ma sicuramente appesantiscono l’ascolto non aggiungendo tra l’altro nulla di clamoroso.

Insomma, le idee ci sono, così come ci sono i pezzi molto ben riusciti, ma rappresentano una faccia della medaglia. Probabilmente se la band avesse deciso di tenere solo le canzoni più riuscite e coerenti e rimandare a data da definirsi il resto, magari anche a discapito di pezzi che sarebbero comunque tra i migliori (uno tra tutti People: ti prende, ti rimane in testa, ma oggettivamente risulta molto slegata dal contesto-album), sarebbe stato effettivamente un gran bel disco, e non una collezione di buone canzoni come invece risulta. È una scelta che può sembrare anche coraggiosa, ma che, come si diceva, denota anche una certa pomposità di fondo che può far storcere più di qualche naso. Healy e soci hanno giustificato la schizofrenia prolissa della loro nuova opera dicendo che si tratta di un disco scritto e registrato per loro stessi – ed è bellissimo e va benissimo, e questo delinea quanto probabilmente i rischi fossero calcolati. Ma dall’altra parte delle cuffie ci sono comunque degli ascoltatori: probabilmente i fan ne saranno entusiasti, perché cosa c’è di meglio di un nuovo disco della tua band preferita se non un disco della tua band preferita super lungo? Chi, invece, si trova tra gli ascoltatori più o meno casuali o comunque non ha molta familiarità con il mondo creato dai 1975 non riuscirà a digerirlo benissimo. Fatto sta che, al di là dell’equilibrio creato da pecche e punti di forza, i 1975 si confermano come la band pop preferita dagli alternativi/la band alternative preferita da chi ascolta pop. Cosa gli e ci riserverà il futuro non lo sappiamo, ma sicuramente, al di là delle critiche, questo Notes On a Conditional Form lascia spazio ad ampi margini di curiosità.

 

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