Metcalfa ci insegna il potere delle mezze misure, nel suo meraviglioso nuovo disco “lagom”

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Se da un lato siamo costantemente bombardati di singoli e nuove uscite, ritornelli pensati appositamente per andare virali su Tik Tok e tormentoni di Sanremo che si duplicano di anno in anno, dall’altro esiste un sottobosco di proposte che di queste dinamiche se ne infischiano. Milano è una città pulsante, notturna, dove i localini non si riempiono di musica, muoiono e si spengono, ma allo stesso tempo le camerette dei musicisti vivono ed esplodono di nuovi pezzi, sperimentazioni e timidi dischi che, se scovati, possono cambiarti la vita. Pensiamo a realtà come quelle dei Deaf Kaki Chumpy, che contano una manciata di ascolti su Spotify, ma poi imballano Santeria e centri di ristoro mentale dell’underground come il CIQ di Milano. E pensiamo anche Metcalfa, nome d’arte di Metello Bonanno.

lagom” è il titolo del suo nuovo disco, un titolo in svedese che di fatto è intraducibile, ma si potrebbe tradurre come “Il giusto equilibrio“, e non potremmo trovare titolo migliore ad un disco che, per lo più strumentale (ad eccezione di qualche brano, come lo splendido “pristine (carry me)” o la masticata “easy days (holy ground)” si condisce di un background jazz – quello figo, non quello dei vecchietti al Blue Note che vi state immaginando voi, ma anche ambient, minimal, un sax che ci porta nella New York vintage più fumosa, un flauto che invece ha un che di Sudamerica. Diversi ingredienti, tantissimi, che però creano un mix unico e indescrivibile. Come quando andate al ristorante indiano, che non sapete bene cosa state mangiando, che non sapete se quella roba lì verdina sia coriandolo, menta o un peperone, però tutto è incredibilmente buono.

Ed è incredibile ritrovarsi a ballare su un disco del genere, ma è esattamente quello che succedo. Scontato ma doveroso citare l’enorme lavoro che viene fatto con lo strumento della batteria e che Metello, da batterista preparato e audace, ha fatto in favore di questo suo nuovo lavoro. Voci, sussurri, un telefono che squilla, la vita quotidiana che irrompe nella musica, che ti porta in un mondo parallelo, che crea un’atmosfera incredibile: non pensate neanche per un momento di poter usare questo disco mentre lavorate, come ho fatto io in un primo momento, perchè ne verrete rapiti e conquistati, ipnotizzati a tal punto da non poter dedicare attenzione ad altro. Questo disco è imponente, ingombrante e capriccioso, non vi mollerà finchè non gli darete tutti voi stessi.

Un ottimo esempio di questa Milano sotterranea che ci sta regalando veramente tanto. Un unico appunto: questo disco andrebbe raccontato, sviscerato, bisognerebbe mostrare ogni momento del suo processo di creazione, della sua vita, di chi ci è stato, di chi lo sta ascoltando. Un disco caldissimo, che è piuttosto sterile nella sua narrazione online, sui social e simili, a partire dalle foto a tinte fredde, lasciando tutto ad un’amara immaginazione che noi, ascoltatori distratti non abbiamo più. Purtroppo la musica non è tutto, o non più, e il contesto live è venuto ormai meno, ci rimane la nostra vita virtuale, che andrebbe coltivata a favore dei dischi meravigliosi che escono dalla noia di un mainstream televisivo e plastico.

Ottimo lavoro, uno dei dischi migliori dall’anno, e lo possiamo dire già ad aprile.

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