Music dot Fran: 30 seconds to Mars

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30 seconds to Mars, live at Futurshow Station Bologna

ph. Francesca Fiorini

Sono una persona molto pavida: mi è capitata gente che possiamo definire come fan sfegatate o parenti di persone di cui ho parlato non esattamente bene hanno reagito come quando alle medie ci dicevamo “ci si vede di sotto” per regolare conti. Naturalmente sono anche una persona che osserva tantissimo, e posso dirvi chiaramente che io ci ho dell’invidia.

Nel senso che ammiro tantissimo il lavoro indefesso che fanno con la loro fanbase: Echelon. Diventata una vera e propria “Church of Mars” come leggo spesso: sono fedelissimi al loro gruppo. Giusto, bene, bello. Capita così, nella musica, nel calcio. Quello che invidio è che i 30 seconds to Mars a livello comunicazione non sbagliano un colpo. Sembra che tutto quel che fanno, tutto quello che decidono sia precisamente studiato ma fatto apparire naturale. Per non parlare della loro gestione dei social media, da prendere d’esempio nelle aziende secondo me.
Chapeau.

Il fatto è che poi in fondo i 30 seconds to Mars mi portano anche della fortuna. In provincia di Venezia propiziano uragani ai festival (ehi, ragazze, sto scherzando) prima che arrivino i Pearl Jam, ma a me portano bene, in fondo.

Prima di arrivare in sala stampa al Frequency Festival, dove io ero impegnata con altre interviste, per spiegare a chi mi accompagnava come fosse Jared Leto ho detto “beh, hai presente Paola Barale e Raz Degan? Ecco, lui è l’esatto anello di congiunzione”. Poi a completare il gruppo c’è anche il fratello, Shannon, e il polistrumentista Miličević. Ma vi giuro che era molto semplice distinguerli, in Press Area: erano quelli aspettati da un gruppo di ragazzine – che mi pare mi dissero che avevano pagato 250 euro a testa per il pacchetto meet-and-greet- col badge della band appuntato sui pantaloni.

Gli album dei 30 seconds to Mars sono abbastanza buoni. Forse avessi avuto 10 anni di meno li avrei ascoltati come si dice nelle mie zone “a nastro”. Il fatto che io abbia visto due live e che invece mi chiedo come mai abbia ascoltato con piacevolmente i loro record, mi chiedo tante cose. Come mai ad esempio non esista ancora un foniatra, volgarmente un medico deputato alla voce, che riesca a far mantenere nelle lunghe tournée. Che abbia trovato la mia specializzazione?

Mh. Facendo due brevi recensioni: in Austria il pubblico era molto ganzo. Talmente ganzo che se non mi fossi inginocchiata, dopo che per 30 minuti il cantante aveva invitato a saltare e urlare a comando si era inventato anche questa cosa, mi avrebbe però credo preso a sassate con stima. Anche perché in piedi eravamo rimasti solo io, le mie ginocchia a pezzi dopo 3 giorni di festival da addetta ai lavori, e Leto. Da lì sorrisi, mi inginocchiai e carponi carponi arrivai in sala stampa. Però cantò discretamente anche se il concerto era più basato verso l’intrattenimento che verso un’opera vocale di esibizione.

A Bologna boh, sinceramente ho rimpianto tantissimo l’esibizione di St. Polten, che no, non mi era piaciuta ma al confronto era qualitativamente meglio: cantante senza voce, bassi che non si sentivano, svenimenti avanti che neppure ad Agosto. Deludente. Un peccato.

Closer to the Edge è un live documentary, quasi. Apprezzabile. Soprattutto intelligente è il clamore che si è creato dietro a Hurricane: video, girato sotto la mano dello stesso Leto ma sotto pseudonimo, che è stato censurato un po’ ovunque per qualche scena di sesso e bondage fusa in un’atmosfera di cattivoni e matrix e deviazioni sessuali a go go che fanno tanta pruderie. Ma soprattutto con protagonista il torso scolpito del cantante-attore per una dozzina di minuti. Direi che se ci fosse stata una t-shirt di mezzo la mia attenzione non mi avrebbe portato a finirlo. Ma ecco, vi giuro, meglio il disco.

“I video servono ad elevare le canzoni a un livello superiore”, disse Leto in una intervista proprio all’HJF. Forse è lì che cozziamo, io e te, e nun ce capiamo. Il video è promozione, il video è contorno alla canzone. Possono essere due arti che si fondono, la visiva e quella delle canzoni. Una può accompagnare l’altra, ma senza mai sovrastarla, prendendola in mano. Ma si sa, la visiva è sempre quella che premia di più. Vi potrei dare anche una spiegazione neurologica, perché sì c’è. E se la si usa oh, commercialmente si fa bene, mica la condanno. Ma ecco, io magari quando parlo di musica vorrei un po’ prima parlare delle sette note e poi degli occhi azzurri.

[no, non me la menate sul “ma ha 39 anni ed è figo.” Io preferisco il 38enne Alex Kapranos. Però riconosco che la fibra data ai figli del 1970 è migliore di quella di noi sopravvissuti a Chernobyl nel 1980]

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