Quando fare musica non basta più: il caso di TUM e il ritorno alla spontaneità perduta

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C’è stato un tempo – non così lontano, eppure già mitico – in cui di un artista conoscevamo solo ciò che trapelava dai suoi dischi. Nessun feed coordinato, nessuna strategia di contenuti, nessuna corsa al trend del momento. Bastavano le canzoni, i concerti, qualche intervista schiva. Oggi, invece, per emergere nel mare aperto dell’industria musicale sembra non bastare più la musica: serve essere accattivanti su Instagram, saper montare reel, curare un’estetica digitale riconoscibile, inventarsi un personaggio che funzioni – e mantenerlo, giorno dopo giorno.

È il destino dei musicisti contemporanei: artisti a metà e influencer per necessità. La creatività si divide tra scrittura dei brani e pianificazione dei contenuti, tra la ricerca di un suono unico e la costruzione di una presenza social altrettanto unica. In mezzo, la sensazione diffusa che qualcosa si sia perso: quell’aura di mistero, quella distanza fertile che permetteva alla musica di parlare prima – e meglio – di chi la faceva.

Eppure, ogni tanto, qualcuno riesce a ripristinare quella magia. È il caso di TUM e del suo nuovo disco, dark side of the minigolf, un titolo che già di per sé promette stranezza, immaginazione e un pizzico di ironia fuori dal coro. L’album riporta a quegli anni in cui per conoscere un artista bastavano un concerto e una barretta presa al volo al bancone, giorni in cui si vagava con la band da un locale all’altro e le storie – quelle vere – nascevano sulla strada, non in un’app di editing.

Le storie itineranti di TUM, le sue avventure surreali e insieme quotidiane, recuperano un modo di raccontarsi che non ha bisogno di un filtro da applicare o di un copy perfetto. Sono frammenti di vita vissuta, tradotti in canzoni che scorrono come pagine di un diario sincero e movimentato. dark side of the minigolf è una roccambolesca autobiografia musicale, un viaggio sincero e sgangherato tra episodi, derive e intuizioni che restituiscono ciò che spesso manca nella musica contemporanea: un punto di vista genuino, non mediato, non costruito.

Ed è forse questo il motivo per cui il disco colpisce così tanto. Perché, in un’epoca in cui gli artisti devono essere brand, TUM sceglie la via più semplice e più difficile allo stesso tempo: essere se stesso. Nessuna sovrastruttura, nessuna narrativa forzata, solo un universo personale tradotto in musica.

E il risultato è uno dei lavori più interessanti e autentici ascoltati quest’anno. Un promemoria potente: la musica può ancora parlare da sola, se lasciamo che sia lei a farlo.

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