Le rose e il deserto pubblica Chissà com’è, un album che segna un punto di svolta nel percorso di Luca Cassano, autore capace di dare forma a una scrittura delicata, precisa e profondamente umana. Il disco, uscito per Level Up Dischi, raccoglie undici brani che attraversano le zone più intime dell’esperienza: la memoria, la distanza, la perdita, ma anche la gratitudine e la possibilità di rinascere. Cassano osserva la realtà con sguardo empatico, traducendo in canzoni le contraddizioni di chi prova a restare fedele a se stesso in un tempo incerto.
Ogni traccia del disco è una piccola finestra aperta su una storia, un volto o un ricordo. Il tuo nome, in duetto con Gnut, affronta il tema dell’assenza con una dolcezza che non rinuncia al dolore; La fine del viaggio, con Sara dei vetri, parla di legami che resistono nonostante la distanza; Damasco e Notturno evocano invece la forza immaginifica della canzone d’autore più classica, tra suggestioni mediterranee e riflessioni interiori. Al centro, Chissà com’è dà voce a un interrogativo che attraversa tutto il disco: come cambia la percezione di chi siamo e di chi abbiamo amato nel tempo?
In questa intervista, Le rose e il deserto ripercorre la nascita del disco, il lavoro in studio, le collaborazioni e le scelte artistiche che hanno portato a un risultato così coeso. Ma soprattutto riflette su cosa significhi, oggi, fare canzone d’autore con autenticità, mantenendo vivo il dialogo tra memoria e presente, tra fragilità e resistenza.
“Chissà com’è” raccoglie undici brani molto diversi per atmosfera, ma legati da un filo narrativo. Ti sei dato una direzione precisa fin dall’inizio?
Le canzoni che sono finite nel disco sono state scritte nell’arco di molti ani: “Chissà com’è”, per esempio, risale all’estate del 2018, mentre “Capobanda” e “Il tuo nome” nascono entrambe nel gennaio 2024. Quindi si, sono d’accordo con te che a livello di atmosfere narrative ci siano molte differenze. Quello che abbiamo tentato di fare (io e Alessandro Sicardi, co-produttore del disco) è stato cercare una coerenza nelle atmosfere musicali che accompagnano i testi. Abbiamo cercato di mettere in equilibrio la mia anima acustica con degli elementi spiccatamente elettronici e in questo (credo) ci hanno aiutato gli strumenti “di contorno”: il violoncello di Irina Solinas, i fiati di Raffaele Kohler e la fisarmonica di Fabio Greuter.
Il titolo suggerisce curiosità e disincanto insieme. Quando hai capito che sarebbe stato quello giusto per rappresentare il disco?
Più o meno alla fine della pre-produzione del disco, quando gli arrangiamenti erano completi e stavamo per entrare in studio di registrazione, Alessandro mi ha chiesto “Come si intitolerà il disco?” e io mi sono accorto che non ci avevo ancora pensato affatto. Ho però avuto subito chiaro quanto il disco fosse pieno di buchi, di assenze, di occasioni mancate, e alla fin fine, di domande, per cui “Chissà com’è” mi è sembrata la title track perfetta.
“Damasco”, “L’alba è una bugia”, “Notturno”: il viaggio, anche geografico, sembra una costante del tuo immaginario. È un modo per parlare di identità?
Allora, in primo luogo, io amo la geografia, alla follia (e questa, lo so, è una opinione molto poco popolare ultimamente). Aggiungo, ed è una banalità, che il viaggio è uno dei grandi strumenti per muovere le emozioni: si esce dalla propria quotidianità, si dismettono le preoccupazioni spicciole, e ci si apre davanti agli occhi un mondo di possibilità che nella nostra comfort zone non vediamo, perché presi da altro. “Il tuo nome” è stata scritta (o almeno è stata iniziata) a Livorno, “La fine del viaggio” l’ho pensata mentre dondolavo su un’amaca in un bosco nei dintorni di Tarquinia, “Notturno” è arrivata nella stazione centrale di Pisa…e potrei andare avanti. E poi si, viaggiare, in molti sensi, uscire da noi, ci permette di guardarci da punti di vista inediti, e quindi di cogliere dettagli nuovi.
Hai lavorato ancora una volta con Alessandro Sicardi e con diversi musicisti della scena milanese. Che tipo di suono cercavi questa volta?
Come ti dicevo, abbiamo cercato di sposare la mia anima più acustica con uno spirito e un gusto più legati al rock nordeuropeo. E quindi da una parte chitarre acustica e classica, una batteria piuttosto minimale, e dall’altro chitarroni elettrici e synth. Il legante lo hanno fatto (secondo me) violoncello, tromba, flicorno e fisarmonica.
Come cambia per te il rapporto con il pubblico dal disco al palco?
Cambia tutto! Io ho bisogno di guardare la gente negli occhi, sentirne il respiro, percepirne le emozioni. Mi è capitato che persone, alla fine di un concerto, mi venissero a dire: “Ascoltando quella canzone mi sono emozionato/a e ho pianto”. Ecco, è per questo tipo di contatto umano che salgo sul palco portando in giro le mie canzoni. Fare dischi invece è tecnica: arrangiare una canzone in un modo piuttosto che in un altro, cantare bene le note. Il disco è solo un mezzo, lo strumento appunto, per poter accedere alla dimensione live.
Hai già in mente come porterai “Chissà com’è” dal vivo, anche in termini di formazione e arrangiamento?
Per ora abbiamo un po’ di date fra Lazio, Lombardia e Piemonte in cui porteremo un po’ di canzoni vecchie e le canzoni del disco nuovo in una versione minimale chitarra+voce e fisarmonica.