VITA DA MUSICO: Robi

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Roberto Ballauri, in arte Robi, nasce a Torino il 2 Marzo 1996 e cresce in un piccolo paese della provincia di Cuneo: Clavesana. A sedici anni imbraccia la sua prima chitarra e comincia a cantare, a squarciagola, scoprendo così la sua forma d’espressione. Inizia a scrivere i propri brani, dall’inclinazione indie pop e, accompagnato dal vivo dalla sua band, si esibisce tra teatri, locali e piccoli festival. “Carezze” è il suo secondo lavoro in studio, nato dalla collaborazione con Kevin Mancardi e Davide Tagliapietra, un disco che rappresenta al meglio le sonorità del cantautore: pop e dirette. Un lavoro capace di mettere a nudo paure e fragilità, raccontando di come esperienze diverse possano spezzare l’incanto di giorni sereni, o accendere e far brillare i sogni più belli.

Abbiamo chiesto a Robi di raccontarsi per noi di Lost In Groove, e lui ci ha aperto uno spiraglio sulla sua storia, raccontando senza filtri quella paura di parlare in pubblico che per anni lo ha accompagnato, quasi come un’ombra. Ma è proprio attraverso la musica — e il tempo — che Robi ha scoperto una verità semplice e potente: non serve essere perfetti per toccare il cuore delle persone:

“Parlare di fronte a un pubblico, qualsiasi esso sia, per molte persone è un gesto semplice, spontaneo. Per me, invece, è sempre stata una sfida: trovare le parole giuste, o riuscire semplicemente a farle uscire, mi metteva a disagio. Davanti a tanta gente, soprattutto, sentivo che la voce non avrebbe retto il passo con il pensiero. Così, spesso, restavo in silenzio, per evitare di balbettare. Con il tempo, dopo aver sbattuto la testa contro centinaia di muri, ho iniziato a cantare. Vorrei potervi raccontare una scena da film, dove ogni problema svanisce tra applausi e magia, ma no: ho continuato a temere di potermi bloccare da un momento all’altro, di sentirmi diverso, meno “capace”. Una cosa però era cambiata: le parole iniziavano a correre libere. Non perché fossi diventato improvvisamente sicuro, ma perché con la musica trovavano una nuova strada: un linguaggio dove anche le esitazioni hanno un loro posto, e le pause non fanno paura.

Ho imparato a suonare alla Scala del Re: una scuola dal nome che sembra uscito da una favola, ma che in realtà era un luogo meravigliosamente semplice, pieno di persone vere. C’erano sogni stonati, dita incerte sulle corde, ma tanta voglia di dire qualcosa. È lì che ho capito che non serve essere impeccabili per arrivare agli altri. Con il tempo ho iniziato a scrivere canzoni, all’inizio per me, per fare ordine nei pensieri. Poi, passo passo, i brani hanno iniziato a lasciare la mia stanza. Ho suonato molto, un po’ ovunque: sui tavoli dei ristoranti, seduto su una tovaglia bianca macchiata di vino; nei bar, dopo qualche birretta felice, quando tutto si fa più leggero; nei teatri; di fronte a molte persone (che poi, “tante” è sempre relativo) e davanti a pochissimi, così pochi da contarli su due mani.

Scrivo canzoni per raccontarmi, nella speranza di riuscire a tendere un filo verso chi ascolta. Ogni brano è una piccola finestra. E se anche solo una persona ci si affaccia e ci si ritrova, per me è tantissimo. Continuo a scrivere per il semplice piacere di farlo. Non inseguo numeri, non mi interessa diventare l’artista con le cifre più alte, né mi illudo di riempire palazzetti sold-out (mai dire mai, però). Scrivo perché la musica mi fa stare bene. Non ha bisogno di essere perfetta, non chiede permesso.

Spero che, nel frattempo, qualcuno possa rifugiarsi nelle mie canzoni come faccio io con quelle degli artisti che amo. Quando mi sento perso, o quando la vita mi pesa un po’. Aiuta a respirare e non c’è nulla di più potente. Faccio musica per dire “ci sono” e per ricordare, a chi ascolta, che si può essere così come si è: imperfetti, fragili e sti cazzi.”

 

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