Esce oggi un disco che, nel nome e nelle sonorità, ci riporta a quel periodo e a quelle atmosfere dense di possibilità, di sensazioni a venire e di emozioni, a volte così tanto più grandi di noi da sopraffarci in maniera intensa e inaspettata.
Si tratta di May, l’album d’esordio di An Harbor, al secolo Federico Pagani, piacentino già attivo in svariati gruppi e ora all’opera da solista.
Lo abbiamo raggiunto per un’intervista, ecco cosa ci ha raccontato.
Hai scelto un nome evocativo per il tuo progetto, da dove nasce An Harbor?
“An Harbor” arriva da lontano, dagli inizi sgangherati con la chitarra acustica, una manciata di canzoni nel cassetto e nessuna ambizione o idea di quello che sarebbe stato il mio futuro. Mi è sempre piaciuto dire che “An Harbor” non è un nome d’arte, sono sempre prima di tutto Federico. Mi piaceva il fatto che riuscisse a racchiudere tante cose a cui sono legato: prima di tutto “an harbor” tradotto letteralmente dall’inglese significa “un porto” ed oltre a suggerire l’immaginario del mare che mi ha sempre affascinato fin da bambino, sta anche a descrivere metaforicamente un luogo mentale/emotivo/spirituale in cui sentirsi a casa dopo un periodo, bello o brutto che sia stato.
Inoltre “An Harbor” richiama la città di Ann Arbor, Michigan, che negli anni ’60 è stata culla del movimento per i diritti civili, della New Left, del White Panther Party e di diverse band che hanno fatto la storia del rock, che adoro e in qualche modo mi hanno cambiato la vita, come MC5 o Stooge. Quindi anche un significato “politico”, ma in un’accezione decisamente più romantica del termine.
Sei già attivo in diversi gruppi, quando hai deciso di realizzare il tuo album solista?
L’idea di iniziare a suonare da solo è nata in modo molto naturale e spontaneo, non è mai stata una necessità a tutti costi. Suonavo solo con gli Ants (nel cui disco sono finiti anche un paio di pezzi cantati da me) ed erano e sono tutt’ora la mia band del cuore, i miei migliori amici, e non sentivo il bisogno di esprimermi per forza anche al di fuori di questa esperienza. Poi mi sono trovato con questi pezzi scritti nell’arco di un periodo abbastanza breve, che sembravano avere una dimensione tutta loro, che potevano funzionare anche fuori dalla mia camera da letto. Quindi alla prima occasione ho preso coraggio, non ci ho pensato troppo e mi sono lanciato.
Parlaci un po’ di May, maggio è il momento dell’anno in cui tutto sembra rinascere, succede lo stesso nel tuo disco?
Certamente. Il disco inizia con Spring came to me e finisce con June is the killer of your young heart, quindi sembra collocarsi naturalmente in questo periodo dell’anno, e mi piaceva molto l’immagine di maggio come mese in cui si è ancora un po’ intorpiditi dalla fine dell’inverno ma allo stesso tempo c’è voglia di uscire, divertirsi, sentirsi liberi. Nel disco c’è questa dicotomia: il lato intimo, cantautorale e malinconico, calato però nella veste più solare, multicolore e danzereccia degli arrangiamenti. Comunque, siccome sono sempre molto cervellotico, mi piaceva anche che “May” potesse significare il verbo “potere, potere essere”. O molto più banalmente un nome di donna.
Un percorso molto elaborato e contaminato nel tessuto musicale, chi sono i tuoi maestri, se ce ne sono?
Bruce Springsteen è il mio primo maestro di vita e di attitudine, in tutto e per tutto. Quasi a livelli religiosi. Poi c’è Greg Dulli (Afghan Whigs, Twilight Singers, ecc), penso di avere imparato a scrivere canzoni studiando le sue al microscopio. Un’altra mia grandissima influenza arriva dalla black music: dal soul anni ’50 all’hip hop e r&b più moderni. Sam Cooke, Marvin Gaye, James Brown sono tra i miei più grandi modelli, ma anche artisti contemporanei come Kanye West, Common, Erykah Badu, Frank Ocean… Se dovessi comunque scegliere un solo artista direi Prince, che più di ogni altro mi ha insegnato il vero significato di “contaminazione”. Sentirsi liberi di passare e sperimentare tra infinite possibilità sonore, anche opposte fra loro, è uno dei miei primi comandamenti. Infine l’ultimo grande pezzo del puzzle è il punk, l’hardcore, le autoproduzioni, il diy, che mi hanno insegnato molte più cose su come gestire, produrre e vivere al 100% la propria musica. Quattro band: Fugazi, Nation of Ulysses, Planes Mistaken for Stars, Latterman.
Quanto c’è di autobiografico nei tuoi testi? Scrivi naturalmente in inglese?
La scelta dell’inglese è prima di tutto un fatto di spontaneità nella composizione. Mi viene più naturale scrivere in una lingua che non è la mia, forse perché l’inglese è essenziale ed efficace: arrivi dritto al punto, senza giri di parole, e funziona.
Le mie canzoni nascono dal mio vissuto personale, ma anche forse dalla rielaborazione inconsapevole di cose e situazioni che mi capitano attorno, non per forza mie. Quando scrivo lo faccio molto di getto, senza pensarci, ed è divertente quando mi accorgo in un secondo momento di avere parlato di me senza essermene reso assolutamente conto.
Hai citato Sulla Strada come uno dei tuoi libri preferiti, quando lo hai letto la prima volta?
Sono un pessimo lettore, o quantomeno sono andato peggiorando con gli anni. Però On the Road è uno di quei libri che da ragazzino mi ha totalmente cambiato prospettiva: avevo 15 anni e non avevo mai letto niente del genere, c’era dentro tutta l’epica americana dei lunghi viaggi in auto, dell’amicizia, del jazz che era vissuto ai tempi come quello che poi è diventato per me il rock n’ roll, una vita libera dagli schemi, da godere attimo per attimo. È innegabile che dentro quel libro ci sono tutti i temi che cerco di mettere da sempre nelle mie canzoni, prima ancora dei miei riferimenti musicali. Mi capita di rileggerlo, l’ultima volta giusto un annetto fa. A pensarci bene, io stesso mi sento spesso come una strana via di mezzo tra un Sal Paradise e un Dean Moriarty. ☺
Hai trovato una tua dimensione ideale nell’esperienza solista o porti avanti altri progetti?
La dimensione solista è uno dei vari aspetti in cui mi piace mettermi alla prova: sia Ants che Le Sacerdotesse dell’Isola del Piacere (di cui è appena uscito il nuovo disco) sono progetti estremamente diversi da An Harbor, ma in cui credo esattamente allo stesso modo e che seguo con altrettanta cura. Quindi andate ad ascoltarli e supportarli!
La copertina di May è davvero bella, ma sei tu il tipo con i guantoni? Non volevi mica spaventarci ☺?
No, però un po’ anche si. Cerco di essere sempre molto puntiglioso e attento su tutto il lato grafico e dell’immagine, penso sia una parte inscindibile dalla musica e quindi sono felice quando esce un buon lavoro. Comunque, fisicamente non sono io, ma idealmente si. Volevo, sempre per tornare sulla dicotomia di sopra, un mood di solitudine e rabbia, ma che ci fosse anche il mare, un posto dove se ci fosse una festa, sarebbe un festa da paura. Per questo ho chiesto aiuto al mio fotografo di fiducia (Andrès Maloberti, che è anche autore del video di Like a Demon) e subito mi ha fatto vedere questa serie di foto di pugili che aveva scattato in Australia: ho immediatamente perso la testa, non avrei potuto trovare una foto migliore.
An Harbor è in tour tra ottobre e novembre, ecco tutte le date:
02 ottobre: Piacenza @ Giardini Sonori
07 ottobre: Milano @ Ligera
08 ottobre: La Spezia @ Da Bacchus
09 ottobre: Nichelino (TO) @ Espresso Italia
13 ottobre: Breganze (VI) @ Pomopero
14 ottobre: Verona @ Arci Canara
21 ottobre: Busto Arsizio (VA) @ Circolo Gagarin
22 ottobre: Vigevano (PV) @ Cooperativa Portalupi
27 ottobre: Bellinzona (CH) @ Pit
28 ottobre: Osio Sopra (BG) @ Pecora Nera
29 ottobre: Sermide (MN) @ Arci Chinaski
01 novembre: Roma @ Na Cosetta
02 novembre: Alatri (FR) @ Satyricon
03 novembre: Nola (NA) @ Borderline
04 novembre: Livorno @ Surfer Joe
11 novembre: Trento @ Circolo Arsenale
12 novembre: Rodengo Saiano (BS) @ Alberodonte
16 novembre: Parma @ Labò
17 novembre: Aosta @ Cafè Du Velò
18 novembre: Savigliano (CN) @ Arci Mezcal
19 novembre: Cavriago (RE) @ Circolo Kessel
24 novembre: Castiglion Fiorentino (AR) @ Velvet Underground
26 novembre: Asolo (TV) @ Gala