La musica, quella suonata, ci insegna che su un palco ci puoi salire come un grande eroe o come un piccolo “ladro”, come una parte completamente fuori posto di uno spettacolo. Se poi imbracci gli strumenti di fronte a decine di migliaia di persone che urlano il nome di un’altra, fortissima, band diventa improbabile uscirne con gli allori. Ma questo non è il caso dei “Nothing but thieves”: cinque ragazzi ben rasati che non si mettono a fare i finti divi o ad imitare la band a cui fanno da spalla, ma salutano, ringraziano e suonano. E quando suonano lo fanno per davvero. Un pezzo dopo l’altro, musica asciutta per presentarsi senza convenevoli, niente giochi da villaggio vacanze. Un pezzo dopo l’altro senza troppe variazioni, ma il più possibile fedeli all’originale. E funziona: la gente non reagisce come solitamente reagisce con i gruppi spalla, con indifferenza prima e insofferenza poi. La gente ascolta prima e si lascia trasportare poi. Ed è a questo punto che il trasporto delle persone coinvolge quei cinque ragazzi ben sbarbati sul palco i quali ringraziando ancora si lasciano scappare tutto il loro entusiasmo per uno spettacolo del genere, proprio mentre, davanti a loro, quasi tutti i presenti illuminano la scena con accendini e telefoni.
Musica asciutta, ben suonata, e coinvolgente.
Dopo due anni dallo sfarzoso e barocco concerto dello stadio Olimpico, i Muse sono tornati – questa volta all’Ippodromo delle Capannelle per il Rock in Roma ( location, certo, un po’ discutibile) – e non sono mancate le emozioni. Tolto lo spettacolo che caratterizzava lo “show” della volta precedente a Roma, è rimasta buona sostanza, passando per Psycho, pezzo che ha introdotto il concerto con scenografie abbastanza cupe e in bianco e nero – cosa che ha caratterizzato l’intera ora e mezza eccezion fatta per pochi pezzi.