Suoni che restano: dentro il mondo di TUM che ci racconta il suo nuovo album!

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Nell’era della musica veloce, dei singoli che esplodono e svaniscono, TUM sembra muoversi in un’altra dimensione. Il suo approccio alla composizione è fatto di lentezza e introspezione, dove ogni suono, ogni parola, ha il tempo di respirare e di farsi spazio nella mente dell’ascoltatore. Il suo lavoro trasforma la quotidianità in poesia, catturando frammenti di vita, emozioni sottili e pensieri che spesso sfuggono al rumore di fondo del mainstream. In questa intervista, TUM ci accompagna nel suo mondo sonoro, tra intuizioni personali e sperimentazioni, rivelando il cuore di un progetto che va oltre la semplice musica: un piccolo atto di resistenza e di bellezza.

  1. Dopo l’esperienza con i Pocket Chestnut, come è nato il progetto solista TUM e cosa ti ha spinto a intraprendere un percorso più intimo e personale?

Il fatto di mettermi in proprio e continuare a fare musica nasce più che altro dalla necessità di continuare a suonare. Con i Pocket Chestnut c’era una dinamica di gruppo molto forte, e il nostro suono era forse più festaiolo o collettivo. Poi, a un certo punto, ho sentito il bisogno di concentrarmi su un lato più intimo della mia musica. Non si trattava tanto di “separarmi” dal gruppo, ma di esplorare qualcosa di più personale. TUM è la mia occasione per raccontarmi in modo diretto, mettendo a nudo emozioni e pensieri senza filtri. È stato un processo naturale: quando mi sono ritrovato a scrivere canzoni in solitaria, mi sono accorto che la mia scrittura stava prendendo una forma più introspettiva, più privata.

  1. Guardando al periodo in cui suonavi con i Pocket Chestnut e comparandolo a oggi, come pensi che sia cambiata la scena musicale italiana — in termini di opportunità, pubblico e approccio creativo?

La scena musicale italiana è cambiata parecchio, soprattutto dal punto di vista delle opportunità e della visibilità. Quando suonavo con i Pocket Chestnut, era un periodo in cui la scena alternativa era un po’ più di nicchia, i locali più piccoli, meno media a supporto. Poi ok se scegli la mia strada, ossia far musica in inglese, è normale non avrai l’attenzione o l’hype ma va bene così.

Mi piace che oggi ci sia una maggiore apertura verso generi diversi e anche le piattaforme digitali hanno aiutato tantissimo a raggiungere un pubblico più vasto. Il pubblico ora è più curioso e più aperto a nuove sonorità, ma credo che l’approccio creativo sia rimasto simile: la musica è ancora un modo per raccontare storie, per esplorare sentimenti e per mettersi in gioco.

  1. Nei tuoi brani emerge una forte attenzione ai dettagli sonori e alle parole: come nasce una canzone di TUM?

Ogni canzone nasce in modo diverso, ma spesso parto da un’emozione o da un’immagine che mi resta in testa, poi cerco di tradurla in suono. Molte volte mi capita di scrivere in modo molto spontaneo, senza pianificare troppo. La melodia, le parole e gli arrangiamenti si sviluppano insieme, quasi come se fossero un dialogo. Per esempio, “Komatiport” è partita da una sensazione che avevo durante un safari in Sudafrica, una sorta di ricerca di qualcosa di sconosciuto. Ho cominciato a suonare l’ukulele e da lì è venuta fuori la melodia. Poi ho lavorato sul suono, cercando di trovare il giusto equilibrio tra la parte acustica e quella più ritmica, un po’ come un collage.

  1. Il tuo nome d’arte ha un suono breve, quasi percussivo: cosa rappresenta per te e come si lega alla tua identità musicale?

E’ il modo in cui mi chiamavano i miei amici all’università perchè nel gruppo esistava già un Tommy e per evitare Tommy 2 mi sono inventato questo nome, che nella mia testa era Toom ma la doppio oo nessuno l’ha mai saputa leggere come u. Per coincidenza è anche il soprannome dell’attivista guatemalteca Rigoberta Menchù, lei stessa ha definito questo nome come il rumore di un libro che cade. Mi piace questa cosa.

  1. Quali sono le influenze — musicali o non — che senti più presenti nella tua scrittura attuale?

Nel mondo dei miei sogni, sul versante folk mi piacerebbe suonare delicato come M Ward e sgangherato come i Donner Party, sul versante blues prego il santino di R.L. Burnside. Poi ci sono tantissime cose che ascolto e forse non rientrano direttamente nel disco ma ci sono, penso ai Death Cab, ai Rogue Wave e tutta la musica americana che dalle camerette è arrivata agli stadi. 

  1. Cosa ti piacerebbe che chi ascolta le tue canzoni portasse con sé, una volta terminato l’ascolto?

Mi piacerebbe che chi ascolta le mie canzoni si sentisse un po’ meno solo, che possa riconoscere in esse qualcosa di suo. La solitudine è una brutta bestia e la musica ti può aiutare molto a combatterla. Non importa se la canzone parla di un’esperienza che ho vissuto io, se riesce a suscitare una reazione, un’emozione, allora ha fatto il suo lavoro. Spero che le persone si possano sentire confortate dalle piccole fragilità che racconto, che possano prendere coraggio nel “cadere e rialzarsi” insieme alla musica. Mi piacerebbe anche che portassero via con sé una sensazione leggera, un sorriso che ti resta qualche minuto in più…

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