Luca Urbani può essere un nome che vi dirà poco (per me è stato così quando ho ricevuto questo disco), eppure andando a scavare nelle informazioni che lo descrivono online ho scoperto che i miei ascolti si sono spesso intrecciati con questo nome, con un culmine della sua partecipazione a Sanremo (e Festivalbar, che forse per quel periodo di riferimento era ancora più importante!) con i Soerba. Oggi Luca è una punta di diamante della scena indipendente, di quei personaggi che ci immaginiamo camminare per le strade di Monza, salutato da tutti: è un produttore e discografico e, ora veniamo a noi, un incredibile cantautore (elettronico!).
“Parlo da solo nei centri commerciali” è il suo nuovo album, un viaggio oscuro ed elettronico, un tunnel da percorrere fino in fondo, come nella sigla di Doctor Who: un disco che parla di amore e solitudine, di come spesso queste cose siano connesse ed intrecciate. “La condivisione” è un brano che un elenco ossessivo di ciò che condividiamo con l’altra persona, le piccole cose che a furia di raccontarle ed elencarle diventano senza significato, Un brano per tutti quelli che si sono innamorati, ma allo stesso tempo si sentono sospesi, apatici davanti alle notizie, all’amore e alla routine in cui siamo intrappolati. Nonostante le farfalle nello stomaco, pensieri osceni e vino rosso, il protagonista di questo brano sembra intrappolato in un loop musicale oscuro ed ipnotico: la solitudine, l’amore.
A questo disco ha partecipato anche Marco Castoldi (in arte, più comunemente, Morgan), e non possiamo che ritrovarci immersi in quei primi anni Duemila, che sapevano di Bluvertigo e locali che passavano i loro pezzi incessantemente. Di quando sembrava stesse per tornare l’estetica glam, e allo stesso modo la non paura di esporsi. In un mondo di canzoni pop insulse, voci maschili che sanno di niente, un disco solitario e unico come “Parlo da solo nei centri commerciali” diventa un punto di riferimento: la fragilità, la vita vera, i sentimenti cantati così, ballabili e trascinanti, urbani e quotidiani, e che ci colpiscono in faccia.
Ho ascoltato questo disco in giorni frenetici, di lavoro e solitudine, e la mia vita mi è sembrata anche più miserabile di quanto lo sia (grazie, Luca!), un disco che si conclude con questa traccia. Cinque minuti di “Può darsi“, o anche tutte le possibilità che abbiamo ignorato, e che ci avrebbero reso la vita migliore. Un martellare incessante di synth, voci doppie, una visione piuttosto negativa di tutti gli altri “e se…” che a volta io mi pongo, la sofferenza costante di quando ci sentiamo incastrati, l’inevitabile che sia così, e basta.
C’è spesso questo sentimento: che sia così e basta, miserabilmente basta, che sia difficile se non impossibile spostarsi su altri binari. Un’apertura estrema, violenta, che ci invita a distruggere, per costruire. Per cambiare vita serve un po’ di post punk, gli anni Ottanta, una via di uscita, spaccare tutto, e può darsi che possa funzionare. Bello tutto davvero.