C’era una volta il Rock ‘n Roll.
C’era una volta la musica suonata, e io, Marco Bugatti, ne rimasi folgorato all’età di 7 anni, quando vidi
un’amica di famiglia suonare il pianoforte. Guardavo le sue mani e vedevo le note, era incredibile.
Tanto tediai i miei genitori che mi fecero fare un test da un insegnante di piano. Penso sperassero che mi
rivelassi senza talento, perché le lezioni costavano più di quanto si potevano permettere, ma per loro
sfortuna venne fuori che avevo un grande orecchio. Anzi dopo qualche mese addirittura venne fuori che di
talento ne avevo molto… e così, in una sera di metà anni ‘80, in un qualche teatro comunale di provincia,
all’età di 8 anni feci la mia prima esibizione. Ero il più piccolo di tutti, e seduto su quello sgabello i miei piedi
non toccavano terra.
A questo punto il conservatorio sarebbe sembrata la mia strada naturale ma i progetti dei miei genitori,
famiglia per bene e cattolica, non avevano preso in considerazione una cosa fondamentale: l’adolescenza.
Quale adolescente è disposto a stare otto ore al giorno tra esercizi al piano e studio della teoria musicale?
Beh, non io! Bullizzato da bambino (“il pianista pazzo”, mi chiamavano) e avendo sacrificato le interazioni
sociali a favore dei miei studi musicali, ero un fascio di ansie, disagio e rabbia inespressa. Ero confuso,
arrabbiato, autodistruttivo e autolesionista. Insomma, ero la vittima perfetta per la musica rock.
C’era una volta il Rock ‘n Roll, dicevamo, tanti anni fa, in una galassia lontana lontana… erano tempi in cui la
gente sceglieva la musica come una bandiera. Come l’espressione di un’identità, di un ideale. So che può
sembrare assurdo in questo 2023 fatto di balletti su TikTok, ma una volta era così: si sceglieva la musica da
ascoltare in base a quello che si voleva essere. Assurdo, vero? E per quanto mi riguardava, c’era una sola
band che esprimeva esattamente quello che ero, una band che in quegli anni era in heavy rotation tutto il
giorno su MTV e il cui nome era sulla bocca di tutti: Nirvana. Anzi, a dire la verità ce n’era stata un'altra
qualche anno prima, una band che si era sciolta dopo aver registrato un solo disco, il cui nome era pura
provocazione: Sex Pistols.
Fu così che il mio cervello flippò, quando mi resi conto che potevo usare la mia rabbia e la mia sensibilità
per fare qualcosa di diverso dal tagliarmi le braccia e contare i giorni che mi separavano da quando avrei
avuto il coraggio di suicidarmi. Potevo trasformare tutto quel disagio in qualcosa di costruttivo. E sbatterlo
in faccia a chi mi aveva preso per il culo.
Il fatto è che poi non mi sono più ucciso, ne sono passati di anni e quel disagio è in gran parte diminuito. Ho
vinto la depressione e, anche se non senza cicatrici sul corpo, dopo essermi buttato a capofitto in una post-
adolescenza di droghe e vagabondaggio, dopo aver suonato per anni nel locale più underground di Milano
(chi si ricorda il Moonshine?), dopo aver fondato e mandato a puttane un gruppo promettente chiamato
Grenouille… dopo tutto questo sono ancora vivo.
Gli anni continuano a passare, continuo a distruggere relazioni, sono sempre più solo e isolato. Ma da quel
processo creativo che mi ha salvato la vita, da quel processo espressivo che rende la vita meritevole di
essere vissuta, da quella cosa non riesco più a staccarmi.
Perché la mia forma d’arte è la musica popolare, e fino a che riusciremo a esprimerci e a far sapere al
mondo chi siamo e come la pensiamo, fino a che daremo a qualcuno un terreno di scambio e di confronto,
fino a che riusciremo a usare la nostra creatività per veicolare un messaggio, fino a quel momento non
saremo del tutto e completamente schiavi di chi ci vuole schiavi.
Amen.