Interviste: Ron Gallo

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A poche settimane dall’uscita del suo quarto disco, “Peacemeal”, la nostra Anita Casadei ha raggiunto via mail il poliedrico cantautore italoamericano Ron Gallo per fargli qualche domanda sulla sua carriera e su altre curiosità che lo riguardano. Grazie ad Astarte Agency

Cominciamo con una domanda generica, giusto per soddisfare la mia curiosità. Dato che hai un cognome italiano immagino che tu abbia origini italiane, potresti raccontarmi un po’ del tuo rapporto e delle tue connessioni con il nostro paese?
Sì, sono italiano da entrambi i lati della mia famiglia. La famiglia di mio papà è di Salerno, quella di mamma siciliana, papà inoltre ha una casa nelle Marche. Quindi sono venuto su con una bell’educazione mista italoamericana/Philadelphia. A parte per le mie origini, la prima volta che sono venuto in Italia ho conosciuto Chiara (D’Anzieri, sua moglie, anche lei cantautrice sotto lo pseudonimo di Chickpee ndt) e stiamo insieme da allora, quindi la mia connessione con l’Italia e persino più forte avendoci passato molto tempo negli ultimi anni. Mi ha dato molto, incluso i migliori momenti e pasti della mia vita.

Nel 2018 hai suonato in una piccola cittadina, Castellina, non lontana da Pisa. Due miei amici erano nell’organizzazione ed è stata una gran bella serata. Inoltre avevi tenuto altri concerti, di cui uno al Beaches Brew. Com’era stata quell’esperienza, hai qualche aneddoto da condividere con noi?
Sì! Nel giugno del 2018 sono venuto per la prima volta in Italia, per un tour di una settimana, probabilmente una delle più belle della mia vita. L’Italia per una settimana senza avere aspettative particolari è stato come vivere in un film. E suonare è stato altrettanto surreale. La data al Beaches Brew nel giugno del 2019 è stata l’ultima di un tour durato quasi quattro anni, oltre che uno degli ultimi miei show in generale, dato che mi ero preso un po’ di tempo libero, poi è arrivata la pandemia. Quindi è stato uno di quelli importanti. Dopo sono collassato nella sabbia guardando il concerto di Courtney Barnett a lato palco, con una piadina e del prosecco. Che bello.

Parliamo della tua musica adesso. Sei tornato il 5 marzo con un nuovo album, “Peacemeal”, tra l’altro omonimo di un album jazz di Lee Konits, lo conosci?
Wow, no! Non sapevo che qualcuno lo avesse già usato come titolo. Era solo una stupida battuta che mi sono inventato un giorno e che poi è rimasta. Sono un gran fan del jazz, quindi mi informerò sicuramente. Magari potrei fare un remix mash-up dei due dischi.

“Peacemeal” è il tuo quarto album, sono passati alcuni anni da “Heavy Meta”, disco che personalmente ho amato sin dal primo ascolto. In tutte le tue produzioni si nota il tuo passare tra vari generi musicali. Cominci con una specie di garage rock, poi ti muovi verso un sound più sperimentale, tipo il funky, il jazz e l’hip-hop. Questa evoluzione è una conseguenza dei tuoi ascolti giovanili o viene da ascolti più recenti?
Entrambi! Sono cresciuto con l’hip-hop degli anni ’90 e la Top 40 alla radio, mi sono trovato così ad essere attratto da quella musica moderna che si rifà a quella specie di nostalgia, che confonde i contorni. C’è un intero universo di cose senza genere che si fanno adesso, ed è lì che mi sento a casa, dove la musica è spinta al di là.

In questo nuovo disco si sente più preponderante l’influenza del jazz. Tracce come “All the punk has been domesticated” hanno delle parti strumentali complesse, mi chiedevo se questo si noterà nei tuoi prossimi live. Pensi che avrai molti musicisti sul palco con te nel prossimo tour?
Sì! Voglio ingrandire la band e portarla almeno a cinque elementi, anche di più a un certo punto, e provare ad includere nuovi suoni e colori. Mi sento come se le nuove canzoni avessero bisogno di più persone, e sarebbe bello anche poterci lavorare su di nuovo insieme a loro.

La scena Indie si è evoluta molto da quando i suoi rappresentanti più eminenti, per fare qualche esempio, erano artisti come White Stripes, Arctic Monkeys o Black Lips. Secondo te come si è evoluta questa scena e cosa significa per te essere un’artista indipendente adesso?
Penso che in un certo senso la musica indie sia diventata la nuova musica pop, e viceversa. La cosa che mi piace di questa situazione è che c’è una grandissima ondata di nuovi artisti che non rientrano in certi canoni, il concetto di genere non ha più significato e questo mi intriga, perché sono una persona che si evolve costantemente e che odia le limitazioni e le etichette. Penso che questo non succeda molto nel mondo del garage dove sono stato per diversi anni, e questo non mi sembra di grande ispirazione, o inclusivo, o universale per me adesso. Sono effettivamente stupito di dirlo, perché qualche anno fa pensavo esattamente l’opposto.

Recentemente hai lanciato la tua piattaforma, Really Nice (reallynice.world), nella quale programmi di mettere tutto quello che produrrai, come l’artista poliedrico che sembri essere. Ci puoi raccontare qualcosa di questo progetto?
Ho cominciato Really Nice mentre ero in Itala, nell’autunno del 2019. Per lo più come una specie di sfogo per aiutarmi a scoprire a cosa fossi interessato e cosa volessi dire ancora. Da lì si è evoluto in un festival digitale lungo nove settimane (ispirato dall’inizio della pandemia), in una serie di interviste e in una linea di vestiario. La parte dei vestiti è qualcosa che avrei voluto fare da anni, ma solo in questo ultimo anno ho trovato il tempo e l’energia per farlo.

L’ultima domanda. Se dovessi fare una lista, quali artisti ti hanno più influenzato?
John Coltrane, Jeff Buckley, Zhane, Fresh Prince, Portishead, Mazzy Star, D’Angelo, MF DOOM, The Stooges, Talking Heads.

 

 

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