Frequency Festival \ Giorno 2

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JAMIE LAWSON.
Dopo il live report e le interviste di Please Madame, sul main stage, e degli At Pavillon, presso il Weekender Stage, si ritorna in sala stampa dove, appunto, ha avuto luogo l’intervista con la band capitanata da Mwita Mataro.
Perdendomi tra le vie del festival, scoprendo -finalmente- un posto dedicato solo ed unicamente a piatti vegani (per voi è triste, per me è una gioia: dopo fritti, robe bisunte e due giorni di noodles con verdure – frittissimi pure quelli-, il mio stomaco fa la standing ovation all’insalatina mista coi bocconcini di seitan non fritti) e ritrovandomi, infine, al camping dove la gente si faceva allegramente il bagno nel fiume e con lo Spritzer, arrivo al Green Stage per assistere al concerto di questo cantautore inglese di nome Jamie Lawson.
Avvicinandomi al palco, poiché l’obiettivo principale è quello di buttarmi tra le prime fila centrali per godermi il concerto dei Mando Diao, noto che l’artista di Plymouth, con chitarra imbracciata, è più grande di quello che credessi: avrà un 36 anni, mentre il pubblico ne ha 20 di meno.
Dalla seconda fila vedo coppiette con coriandoli e stelle filanti colorate tra i capelli, sento una certa ansia nel vedere questi sedicenni che si avvolgono e ondeggiano (ah, poveretti: sono ancora convinti che il primo e vero unico amore sia a quell’età) abbracciati: oh, che carini. Sì, proprio bellini: per fortuna c’è il bar a due passi e riesco a passare tranquillamente tra le coppie che fanno venire gli occhi a cuore anche ai gattini-alieni-mostruosi che sono le mascotte del festival.
A Jamie Lawson, insomma, preferisco il vino senza alcuna soda o acqua frizzante: non è il mio genere di cantautorato preferito, poiché risulta, a mio modesto parere, un po’ banale ed enfatizzato da quest’amore che, boh, pare provenga da una telenovela sudamericana.
Col carico di 1\2 litro di vino (nemmeno tanto orribile, anzi) ritorno alla mia postazione, ripetendomi ad ogni canzone lo stesso mantra: “LO FACCIO PER I MANDO DIAO“.
“Lo faccio per i Mando Diao”, mentre Jamie Lawson continua con la sua nenia e, verso la fine del live, mi sento ondeggiare anche io, da quel bel mezzo litro di vino e più (i bicchieroni di vinello alla spina a 3€ ai festival, anche in sala stampa, aiutano nei momenti difficili).

 “L’HO FATTO PER I MANDO DIAO… E NE È VALSA LA PENA”.

Premessa: sono donna, sono fatta di carne (come il tipo, graziosissimo di 2 metri, che ballava al mio fianco e si voleva stracciare -pure lui- i capelli per Bjorn e Gustaf) e aspettavo di vedere i Mando Diao da quella data cancellata all’Estragon moooolti anni fa (perdendomi la data, dopo tanti altri anni, al Covo).
La band sale sul palco e per una buona ora di concerto sento qualcosa che non va: gli effetti del vino sono passati, mi sa che “quel” che non va è dovuto alla presenza scenica dei soggetti sul palco.
I due frontman, Jens Silverstedt (cori e chitarra, scambiato per Gustaf…) e Bjorn, sono al centro in prima linea; Daniel, tra organo e tastiere, è leggermente più indietro sulla loro destra; Carl, al basso, è sulla stessa linea dei frontman, ma molto più spostato sulla sinistra; Patrik, alla batteria, è a petto nudo e lo si intravede quando cerca di far reagire il pubblico, quest’ultimo troppo giovane e legato al mondo dei Mando Diao unicamente grazie alla sola “Dance with Somebody” e al ritmo seducente di “Shake”(ma cosa vi siete persi in questi anni…).
Musicalmente parlando, i Mando Diao sono rimasti, fortunatamente, gli stessi e, questo, lo dico dopo aver ascoltato molto vagamente “Good Times”, il loro ottavo album in studio.
“The Band”, “Mexican Hardcore”, “Ochrasy”, “Long Before Rock’n’Roll” e “Down in the Past” (per questa traccia: alzi la mano chi si ricorda di quel capolavoro travolgente di “Hurricane Bar”) sono i soli brani che ripercorrono la prima parte di storia dei Mando Diao; il resto dela setlist, infatti, presenterà tre brani da “Give me Fire” (“Gloria”, “You Got Nothing on Me” e la suddetta famosissima-classicone) e altri proprio del più recente “Good Times”: la scaletta non sarà troppo piena, giusto 13 canzoni, ma per i nostri ormoni scatenati direi che sono più che sufficienti e la scena post-sesso dove si fuma la sigaretta ora è più che mai comprensibile (coi Mando Diao, però, ti verrebbe voglia di fumarti un intero pacchetto).
Torniamo alle cose serie, per quanto sia davvero arduo (per me e il mio vicino di danze) mantenere un certo controllo: il live della band svedese.
Bjorn ha una voce molto più rauca di quel che credessi, poiché è seducente, aggressiva, passionale e vigorosa, tipicamente molto vicina al garage rock (del genere: “sì te, proprio te: ti ingravido solo con la voce”); inoltre, ha una presenza scenica possente che viene sottolineata dal suo sbottonarsi\strapparsi i bottoni della camicia e dai suoi continui colpi di pugno sul petto sudato che ci dicono “Come at me”.
“Voi siete troppo giovani per noi” viene ripetuto più volte nel corso del live, poiché i ragazzi del pubblico a lato palco richiedono solo ed unicamente lei: “Dance With Somebody”.
Questo aspetto del live mi mette un po’ a disagio, soprattutto pensando al fatto che il pubblico sia lo stesso che, una quarantina di minuti prima, ondeggiava in maniera fin troppo smielata su Jamie Lawson.
Jens, che si assume il ruolo di secondo frontman, interviene al momento giusto, si toglie via gli occhiali da sole e decide di slacciarsi pure lui la camicia di jeans e rimanere a petto nudo (se la mia reazione è stata simile a una specie di “Ohhh” seguito da un fastidio dovuto al reggiseno che, a una certa, decide di slacciarsi proprio prima dell’encore, non vi dico quella del mio vicino: scusaci Gustaf, credevamo fossi tu): i cori del chitarrista si fanno sentire e tendono ad ammorbidire la voce di Bjorn, ma le sonorità esplosive, aggressive e garage rock che vengono fuori dalla sua chitarra hanno la stessa intensità della voce principale.
Tra questo scontro canoro e quello di alcune sonorità tra gli anni ’60 e ’70, si hanno quindi: una voce rauca in contrasto con i cori morbidi; la presenza dell’organo con sonorità legate a fine degli anni ’60 che si imbatte in quel garage rock più esplosivo; un miscuglio di brani più originali con quelli del nuovo album.
Dopo 10 canzoni e una bella sudata a forza di ballare, cerco di sistemare qualcosa con scarsissimi risultati, e arriva, nel giro di pochi minuti, un encore di tre brani alquanto esplosivo:

“Ochrasy”
“Long Before Rock’n’ Roll”
“Dance with Somebody”.
Lentamente, con un crescendo che regala forti speranze al pubblico di Jamie Lawson, eccola: il singolone, la canzone da sing-along interminabile.
Bjorn guarda i suoi compagni sul palco e inizia proprio “Dance With Somebody” che dura per circa un 10 minuti: la avete desiderata per così tanto? Bene, e ora ve la cantate e a squarciagola.
È stato tutto molto bello, ma, invece di 5 minuti di coretti stonati di un pubblico giovincello, non era meglio una  “This Dream is Over” o “Clean Town”?
La scelta finale da parte della band è stata ovvia, quei cinque minuti potevano essere spesi in altro modo e con altre tracce stupende; nonostante tutto, però, si esce belli scomposti e stravolti da un live che si può tranquillamente paragonare a puro sesso: quando mai mi è capitato, del resto, che il reggiseno volesse fuggire per conto proprio sul palco e nel bel mezzo di un live in tutti questi anni di concerti?!

MACKLEMORE.

L’impresa del ritornare in sala stampa, darsi una sistemata, bersi qualcosa e intervistare una band in piena estasi Mando Diao: Francesca, alle foto, se la rideva tantissimo mentre cercavo di essere professionale con questi giovincelli austriaci.
Macklemore è iniziato già da un po’, ma non è mia intenzione starmene chiusa in sala stampa a riflettere: in qualche modo devo trovare la forza di uscire e vedermi il live di quel gran tamarro-rapper che ti prende a ballare anche se non è il tuo genere.
Un altro problema sorge all’improvviso: lo stage principale è talmente gremito di persone che non si trova uno spazio in cui ballare e scatenarsi su ciò che propone quest’artista estremamente talentuoso ed ingegnoso, nonché grandissimo paraculo (lo sappiamo tutti: potrebbe fare cose molto più sperimentali e non solo utilizzando le basi).
Ogni singolo essere vivente, insomma, cerca di godersi il concerto: esprimersi con un “sotto al palco” quando si è a quasi 150 metri da questo, non mi pare proprio il caso.
Un muro di suoni, colori, ballerini (troppo distante per capire cosa fossero le altre presenze sul main stage) e di persone molto -ma molto- più alte di me è tutto ciò che riesco a vedere; ma, successivamente, non appena si sente nell’aria “And We Danced” si forma una specie di catena umana e, inconsapevolmente, tutti veniamo trasportati in avanti, poi di nuovo indietro, ai lati: finalmente, ho trovato uno spazio; finalmente si balla e le mie gambe perdono il controllo, insieme a vari litri di birra che volano per aria (e, onestamente, chissenefrega).
La visuale, insomma, è costruita da questi migliaia di corpi in movimento continuo e da un sing-along interminabile e quasi palpabile: c’è un’energia così positiva nell’aria che è davvero impossibile da descrivere.
I brani di Macklemore sono liberatori (anche per lui, del resto sono parti fondamentali della sua vita), mai frammentati, sudati e ben concepiti: nessun grido, nessuna birra volata per aria, niente e nessuno può scomporre quest’esperienza incredibilmente suggestiva per lui, per noi del pubblico, per le nostre gambe che continuano a muoversi senza darsi un contegno.
Gran parte del live di Macklemore l’ho vissuto  fuori dal gran movimento generale, ma ammetto che se avessi visto le trashate, i vestiti e la scenografia presenti sul main stage mi avrebbero colpito molto di più e la descrizione di questo live, comunque esilarante e uno tra i migliori dell’intero festival (sempre dopo i Gorillaz e quanto-sarà-figo-Casper, in tutti i sensi, nel corso del terzo giorno di festival), sarebbe stata un’esperienza molto più completa.

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