Music dot Fran: Jimmy Gnecco

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Jimmy Gnecco live at Radio Popolare, Milan

ph Francesca Fiorini

Ricordate la regola del “non intervistare qualcuno che ti piace perché non è professionale”? Ecco. Ahem. Facciamo finta di nulla. Vi dirò solo che sto per parlarvi di un musicista che ascolto da dieci anni. Uno di quelli che non ha mai pubblicato un album in Europa finora perché… oddio, perché c’era una serie di sfighe sotto che condensarle è difficile. Ma io e il mio amico Massimo li compravamo dagli americani via ebay, smezzandoci le spese di spedizione.

Fu proprio quel mio amico che me lo fece conoscere dicendo che ok, aveva trovato un cantante bravissimo di un gruppo chiamato Ours, ma che aveva un nome troppo tamarro. Si chiamava Jimmy Gnecco. Dissi subito, anzi, eravamo in chat su ICQ, che sì, ecco, il nome non invogliava. Mi passò questo mp3 con la connessione che andava ancora lentissima e dopo 30 minuti mi arrivò il file di questo ragazzo qui che aveva una voce incredibile. Penso ancora che se esiste una voce che può dare l’esistenza di Dio questa è quella di Jimmy.

Vi dirò solo che quando sono arrivata nell’ufficio milanese dove l’ho intervistato avevo fatto le scale di corsa, perché in ritardo. E aprendo la porta l’ho trovato lì seduto sorridente sul divano e ho pensato “oddio, e ora come parlo? che gli dico? ricordo solo grugniti in dialetto toscano, ommadonna”. Ma ce l’ho fatta.

Chi è Jimmy Gnecco? Cantante solista degli Ours. Nel 2001 – grande anno per molte produzioni – esce con la Dreamworks il loro primo album ufficiale, che si chiama Distorted Lullabies. Con pezzi incredibili come Fallen Souls, Drowning, e altri. Rolling Stone lo recensisce e gli piace e tutti si chiedono come mai questi ragazzi sconosciuti abbiano pubblicato con una così grande etichetta ma non facciano il botto. Esce anche poi il secondo album che si chiama Precious. Ma da lì una serie di eventi: già l’11 settembre 2001 gli Ours volevano iniziare un tour promozionale in Europa “ma eravamo appena atterrati in Spagna” mi dice Jimmy nella mezz’ora di intervista “ci siamo resi conto che tutto quello che potevamo fare non ne valeva la pena, c’era una cosa molto più grande di noi in atto, una tragedia di dimensioni mondiali”.

Poi Precious non andò per niente in promozione perché la fidanzata di Gnecco si suicidò e fu molto vicino a smetterla con la musica. Da lì un lungo hiatus, fino al 2008 e Mercy (Dancing For The Death Of An Imaginary Enemy) con canzoni che ormai tutti i fan conoscevano perché portate in giro per un lunghissimo tour live che non si è mai interrotto. Poi quest’anno esce l’acustico disco solista The Heart , diverso dai precedenti lavori con gli Ours per sonorità e arrangiamenti. In The Heart Jimmy Gnecco suona tutti gli strumenti, spaziando dalla batteria, alla chitarra, alla voce. Vengono inserite alcune canzoni già cantate in diversi live con gli Ours, una su tutte Heard you Singing, dedicata alla memoria di Jeff Buckley.

The heart è un album nudo. Appena ha finito di inciderlo, nell’autunno dell’anno precedente, sua mamma è morta. Tutto questo ha nuovamente influenzato scelte e registrazioni e, soprattutto, il clima delle canzoni e le liriche. Quando vi mettete ad ascoltarlo con le cuffie, magari con un poco di pioggia e poca luce, vi sembrerà averlo nella stessa stanza a raccontarvi le sue emozioni. Dritte, senza tanti giri di parole. Nell’intervista di mezz’ora abbiamo parlato un po’ di tutto.

La sera c’è stato un piccolo showcase per Patchanka, trasmissione di Radio Popolare. Il set è stato molto corto rispetto agli standard di uno Gnecco che ricordo una volta in un bootleg domandò scusa perché avrebbe suonato solo pochi pezzi avendo mal di gola. Erano circa 27. Questa volta molti meno, ma lo stesso sono bastati per conquistare nuovi appassionati e per far venire i lucciconi a chi ha fatto magari 500 km per vedere dopo anni il proprio beniamino. Che poi è stato disponibile coi fan alla fine del concerto, sebbene la sua direzione primaria fosse quella dell’andare al bagno.

Per chi poi fosse maggiormente interessato a breve c’è uno speciale su Radionation. La cosa che sembra più strana, riascoltando anche da parte mia, è che manca alle parole tutto un substrato di emozioni mentre vengono dette e quegli occhioni spalancati prima di sorridere su qualche cosa. Sono quelle volte in cui privilegeresti il video.

Il tuo ultimo disco sembra registrato in presa diretta, è così semplice da ascoltare, sembra qualcosa venuto così naturalmente, facile da ascoltare. Da dove viene il nome The Heart, perché è un nome così legato personalmente a se stessi?

“È il primo nome che mi è venuto in mente ed è quello che ha più senso se ci pensi bene, perché in questo disco ho voluto mettere proprio quello che stavo sentendo in quel momento, volevo descrivere cosa provavo, e senza alcuna scusa volevo spiegare cosa stesse provando esattamente il mio cuore in quel momento, senza paure o risentimenti. Senza che dovessi chiederne scusa.

Perché è stato anche un periodo molto difficile, quello della registrazione.

“Sì, definitivamente molte canzoni sono cambiate durante la registrazione, di volta in volta addirittura. È stata una sorta di terapia poter esprimere tutti i sentimenti che provavo in quel momento, nel vedere soffrire mia mamma, nel poter esorcizzare e fissare quel che capitava quindi. Era qualcosa che cresceva nel mio cuore, no? E in cui magari anche altre persone potranno riconoscersi.”

Non avete neppure pubblicato gli album degli Ours in Europa. Non ti ha creato una certa frustrazione?

“Sì, sfortunatamente, ma non per mia scelta. A parte che quando siamo venuti per la prima volta in promozione in Europa eravamo appena atterrati il 9/11 in Spagna e quindi niente era più come prima e null’altro era più come prima, e dicemmo che magari era meglio rimandare. Poi non ci hanno dato una seconda scelta ancora. Per quanto riguarda la frustazione ecco… (ciondola la testa e alza gli occhi al cielo ridacchiando).”

Tu solitamente urli, cioè, non urli per il piacere di urlare ma per sottolineare le varie emozioni nelle tue canzoni. Quanto è complesso a livello vocale, visto che tu hai un’estensione notevole?

“Sì, è una difficoltà maggiore, hai ragione. Ma ecco, è come aumentare il range di emozioni quando tu sai comunicando qualcosa. È come quando in un film aggiungi la colonna sonora per evidenziare particolari momenti, di felicità, di paura… Però ecco, hai ragione, invecchiando anche sta diventando un gran casino e non so come farlo così spesso ancora.”

Tu hai parlato di Film. So che hai fatto un corto con Michael Maxxis, che è anche il regista dei tuoi video, e David Carradine prima della sua morte.

“Sì, non non è stato ancora finito però. Certo che lavorare con Carradine è stato qualcosa di straordinario perché soltanto il suo carisma sul set ci faceva sentire come se arrivasse non so, qualcosa di altamente ispirativo per noi, qualcosa che ci guidasse nella realizzazione solo con la sua presenza.”

E la differenza tra recitare e suonare?

“Beh, quando compongo canzoni non è una cosa da personaggio. Vengono naturali, alcuni vengono in quindici minuti, naturalmente… cioè, non faccio una cosa come non so, gli Interpol molto costruita (n.d.r. Fran e si mette realmente a imitare Paul Banks). Quando ero più giovane sì, cercavo di captare le canzoni degli altri e farne cover simili a come facevano loro. Poi ho pensato che anche quelle le dovevo cantare come mi sentivo io. Le canzoni sono cose per cui non mi atteggio come un personaggio. Esce quello che sento, che continuo a provare dopo che ho già scritto una cosa. Sono io, non filtro. Invece quando sei lì a recitare sei lì per la tua posa e infine ti dicono ok, bene, è fatta, congratulazioni. E finita lì.”

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