Intervista ad Enrico Gabrielli

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Ci sono due problemi quando intervisti personaggi del genere: che essendo sia te che lui due persone schive che si sbattono tantissimo nel loro mestiere (il mio mestiere fortunatamente per il mondo non è -ancora?- intervistare) che ci sia l’ansia da scrivere stronzate. Come per la precedente anche qui fortunatamente la controparte è molto intellingente e pronta.

Probabilmente dopo che in 62000 (diciamo la metà, Sansiro non era pieno in quel momento) l’avete visto aprire con i Calibro 35 il concerto-evento dei Muse potete rivederlo suonare anche al Rock in Rolo a inizio Luglio. Naturalmente essendo io un adepta del Gabriellismo vi consiglio vivamente di sentirlo suonare almeno una volta nella vita (cheppoi suonando abbastanza in diversi collettivi sarebbe più d’una). Se volete farvi un’idea segue una intervista realizzata via mail in tempi un po’ allungati [Enrico ci fa sapere di non essere ancora molto avvezzo all’uso di internet] ma molto ben risposta. Grazie ancora.

[grazie a Michele Orvieti per l’intercessione, come grazie alla Trovarobato di esistere]

Fran: Der Maurer, un progetto meraviglioso, una rilettura particolare di alcuni brani di chi ama la musica colta. Tu stai capendo che la mia domanda che sta per uscire è “come cavolo t’è venuto in mente?”?
Enrico: Facciamo ordine, prima di rispondere a vanvera. E per fare ordine mi serve partire dalla parte conclusiva della tua domanda dove parli di cavoli e di mente. Se mescolo la questione può venire fuori una cosa del tipo “t’è venuto in mente come cavolo?”. Ecco a questa domanda potrei rispondere più o meno così: “mi rifaccio ad una vecchia tradizione popolare grazie alla quale i figli nascono dai cavoli. O almeno, mia nonna questa informazione me la dava per certa. Poi lessi Rodari e cambiai idea. Ma come da piccolo ero convinto fosse vero, posso dire che Der Maurer è un figlio nato da un cavolo. Da un cavolo nero, per l’esattezza, che è un tipo di cavolo che si trova negli ortomercati della sola toscana”.

Fran- [ti avverto, mi mancano delle rotelle in capo e ne sono conscia]ascoltando il lavoro, alla seconda traccia, mi è venuto in mente che nella musica antifonale avevano tutta quella cura di cercare posti tipo -del resto- la basilica di San Marco a Venezia e mettere i musici negli anfratti per rendere meglio ciò che avevano in mente e sul pentagramma. Da lì mi è venuto in mente invece i posti che abbiamo in Italia per suonare, dove diciamo che, ecco…

Enrico: La Basilica di San Marco è stata concepita appositamente per certe pratiche corali che destassero meraviglia nel fedele. Come molti affreschi, mosaici e vetrate sono state costruire all’insegna dello stupore mistico. Erano gli efetti speciali di allora. Effetti artigianali che nella loro magnificenza potrebbero stupire ancora adesso. I locali, i pub o i club non hanno nessun fine mistico, per cui è giusto che siano fatti per suonare con attrezzature elettroacustiche. Spetta a chi suona decidere se fare o non fare cosa buona e giusta.

Fran- Nel volume 2 di Der Maurer ci sarà un pezzo di G.Ligeti. Da dove parte la scelta dei pezzi per questo tuo progetto?

Enrico: Butto là le idee e poi le ritratto. La scelta dei brani è dettata da un semplice problema di riproduzione: essendo solo, tenderei a ridurre il repertorio per ensemble o grandi gruppi. Tutto qua. Ma anche dal “tema” che sta dietro al volume. Nel prossimo volume infatti farei cose che sconfinano con il divertissement di ispirazione da-da. Di Ligeti infatti registrerei il poema per 100 metronomi. Poi c’è un sottotesto nella selezione del materiale che sfugge anche a me. Ma so che mi convince quando elenco dei brani possibili.

Fran- Mio padre (siamo vicini di province di origine: io Siena, tu Arezzo) diceva che la terra è bassa. Tu ti poni, umilmente, come muratore della musica. Quali sono quindi nella musica odierna quelli col culo sul SUV, nella musica?

Enrico: Domanda faziosa. I SUV ci sono, ma a mio personale giudizio duran poco e portan disgrazia. Per cui chi sta là sopra e porta il figlio al supermercato rischia di lasciarcelo dentro o di fare un sorpasso omicida davanti al Palazzo di Giustizia. Sono entrambe cose successe realmente.
Nessun musicista di mia conoscenza è in possesso di una tale trappola. Molto pubblico televisivo ne vorrebbe uno. Gli autori televisivi te li vendono. I mustafà della vecchia discografia hanno capito troppo tardi che il petrolio è finito. Ma sì, forse sono loro grassi e obesi in mezzo alla strada a secco con il SUV e il bimbo addormentato. Io non li aiuterò, ho altro da fare.

Fran – Quali sono stati i tuoi inizi nella banda del paese?

Enrico: Cominciai come tanti altri ragazzi in paese, ovvero perchè ci andavano altri ragazzi in paese. Ma io non per inseguire il mio amico, ma per cercarne qualcuno. Perchè in verità giocavo molto, ma spesso da solo. E ho avuto un percorso sociale molto lento e accidentato. Poi non si sa come e perchè rimasi uno dei pochi a continuare. Mi spostai al Liceo Musicale di Arezzo, una encomiabile piccola struttura a metà strada tra un liceo classico e un conservatorio. Ma più freak. In classe con me c’erano Michele Orvieti e Alessandro Fiori dei Mariposa, una tale Elisa Pieschi attuale cello con Povia, Antonacci e Baglioni e nella classe sotto il Gando (chitarrista di Paolo Benvegnù). Quattro anni prima di me ci studiava Nicola Patrussi, il primo oboe dell’orchestra di San Remo che quando l’anno che l’ho diretta con gli Afterhours me lo sono visto davanti è stato un flash.

Fran- Da uno a dieci quanto sono “famiglia” i Mariposa?

Enrico: Sei. Il Settimo sono io.
Calibro35 live in San Siro.

Fran – I calibro 35 vanno alla conquista degli USA (nuovamente). Cosa ne pensa il produttore che alberga in te da qualche parte? (dài, il premio del MEI non può mentire: sei produttore) E come vedi la scena indipendente italiana rispetto a quella estera?

Enrico: L’America non è un posto da invadere. C’è posto per tutti. Solo noi Italiani siamo riusciti a farci invadere, azzerando il nostro potere contrattuale a livelli ridicoli, senza il minimo senzo di protezione delle nostre cose, senza la cura necessaria per una pianta che merita sole, acqua e auto-considerazione.
Se fossi io nei gangli e in certe maglie della cultura italiana farei come la Francia. E dopo il “french touch” promulgherei l'”italian taste”. E smetterei di immigrare ma inizierei ad accogliere. Andrei fuori, come già stiamo facendo, per capire meglio quello che di buono si può trasdurre dalle nostre parti.
In Italia c’è molta roba buona e molte cose che funzionano. Bologna ad esempio è piena di luoghi dove suonare: Locomotiv, Estragon, Crash, Sant’Andrea degli Amplificatori, il Covo, l’xm24, il Wolf, l’Arteria, il Raum, ognuno con un tipo di sensibilità diversa. A Milano succedono un sacco di joint venture e collaborazioni più o meno serie. E gruppi, musicisti e realtà musicali italiane interessanti ce ne sono a bizeffe: a Toys orchestra, il Teatro degli Orrori, Io sono un cane, Tubax, Zeus!, Ronin, Guano Padano, Grazian, Basile, Dente, Le Luci.D.C.E., Samuel Katarro, the Casanova’s, Dino Fumaretto, Hike as The Giggles, i progetti con Reeks, Bologna Violenta, i Mamuthones, i Sèlton (che sono Brasiliani in stanza in Italia), Zona MC, gli Uoki Toki, i Marta sui Tubi, Sonic Belligeranza, Eterea Post Bong Band, i Baby Blue e tantissimi altri. Tantissimi, non pochi. Che magari proprio i migliori stanno fuori da questo elenco o non li conosco ancora.

Fran -Srotolare la tua biografia su wikipedia è peggio che ravanare nei rotoli del mar morto, e quindi vedendo la parte produttiva sorge spontanea una domada: chi è stato l’artista che ti ha più fatto penare nel suo ruolo di arrangiatore?

Enrico: Il lavoro più articolato e lungo, vuoi per complessità e contingenze di vita, è stato “Da a ad A” di Morgan. Tutta la gestazione ha coperto il 2006 conludendosi nel 2007. Alle soglie di novembre. Ricordo che mi portai molto lavoro in USA, durante il primo lungo giro con gli Afterhours di spalla ai Twilight Singer. Scrivevo in furgone i pezzi di arrangiamento mancanti. A San Francisco spediì un pacco pieno di manoscritti. E appena tornato in Italia entrammo in studio. Molte cose Marco le rivedeva, in fondo è sempre stato lui a cambiare, tagliare, spostare le singoli parti nella griglia d’orchestra. Lo ha sempre fatto ad orecchio. Un orecchio formidabile. Però una parte della canzone “Da a ad A” e l’intera “Contro a me stesso” sono finite su disco come le avevo pensate in furgone. In ogni caso quando c’era da cambiare, potevamo anche passare 5 ore di notte su una scala cromatica di un oscuro terzo trombone. E una volta simulata la parte convincente su Reason (su computer) io ritrascrivevo su pentagramma. Ho ancora a casa spartiti con miliardi di mie correzioni ancora adesso a me incomprensibili.

Fran -Questa è una domanda poco professionale, lo so. Perdonami. L’8 giugno io e te siamo a San Siro: io al secondo anello rosso e te a suonare sul palco. In uno stadio stracolmo. Come la vedi ‘sta cosa? (il mio punto di vista spazia tra “speriamo non faccia troppo caldo sennò non mi bastano 3 litri d’acqua” e “speriamo mi bastino le pile per la fotocamera”, te lo dico)

Enrico: Rispondo ad evento avvenuto. Caldo non lo è stato poi così tanto. Per cui il primo punto di vista è sazio, no? Le pile sono bastate? Resterà questo interrogativo per sempre. In ogni caso è stata un’esperienza che ci resterà appiccicata addosso per la vita. Un pò come Mino Reitano che ha aperto i Beatles.
Con la differenza che i Muse avevano un impianto e un light show tra i più imponenti mai visti. E i Beatles, e Reitano dunque, no.
Sono stato a bocca aperta tutto il loro concerto. O happening, chiamiamolo così. Dom, il batterista, si è complimentato nell’aftershow. Ma io non c’ero perchè cercavo un pronto soccorso per una congiuntivite bilaterale che mi stava uccidendo.
Con noi tutto lo staff, i Muse stessi e gli altri gruppi in apertura sono stati eccezionalemnte gentili. Abbiam tirato un respiro di sollievo. Le bottiglie ad altezza testa non piacciono a nessuno.

Fran- Cito: “in principio era dirige l’orchestra il maestro Enrico Gabrielli”, c’è anche un gruppo su facebook. Cosa è stato e cosa ne è rimasto di quel sanremo con gli Afterhours?

Enrico: E’ stato come ficcare una bandierina sul suolo polveroso di roccia lunare di un luogo lontano dalla realtà. Nel senso che San Remo è uno spettacolo televisivo e guai a vederlo in senso politico come il baluardo di un mondo chiamato di comodo “musicale”: è come un La Prova del Cuoco in grande, o una Domenica In con più soldi. Mi porto dietro quel ricordo come se fosse di decenni fa, nella mia infanzia, nel mio DNA. E invece sono solo passati una manciata di lustri. Di fatto fu l’ultimo live che ho fatto in qualità di Afterhours. Ancora mi sono molto cari, gli After. Devo molto a loro. Ci vediamo ancora spesso. E ci facciam parecchie risate al ricordo delle cariatidi del festival.

Fran- Ri-cito, sempre dalla biografia: “Sta scrivendo un’opera lirica su un racconto di Michael Ende, dal titolo “La milleundecima notte”, su libretto di Sergio Giusti.” Dobbiamo aspettarci qualcosa di più verso il riccardococciante o verso il rufuswainwright? (sembra una domanda scema, ma non lo è, almeno nella mia testa: ossia uno se la smena con l’opera popolare e la gente va a frotte a vederlo, l’altro è invasato dalla vera Lirica e tenta di fare tutto in modo ortodosso ma è un po’ schifato da tutti gli addetti ai lavori e i critici perché un gay-icona-pop. Tu, come immagini di collocarti?)

Enrico: Cocciante ha fatto un musical. Non l’ho visto anche se avrei avuto l’occasione (pensa te!). Per cui non ho materiale critico.
Su Rufus Wainwright va tutta la mia stima per “Age des tenebres”, un film strepitoso, dove canta all’inizio del film un’aria francese di Andrè Gretry. Non conosco però il suo lavoro come operista. Cercherò.
Io non sono abbastanza personaggio per essere accostato a questi due signori. Su di me non pioveranno mai critiche per un semplice motivo: non avrò mai alcun mezzo per realizzarla l’opera! Anche solo la ricerca dei cantanti è cosa ardua.
Questa è in breve la vicenda: in un corridoio d’ospedale a Bagdad nel 2001 c’è un barbone. I militari americani gli rompono le scatole per i documenti. Lui dice di non averne più e che il suo nome oramai è Insh’allah. E comincia a raccontare la sua storia. Era un ricco mercante un tempo che se n’è sbattuto di tutto, finchè un giorno si trova dal nulla rinchiuso in una stanza con 111 porte. Una voce gli dice che solo una lo porterà alla salvezza. E lui resta lì dentro per anni e anni. E la lotta per uscire è del tutto metaforica. Ma riesce in un modo che in questa sede non racconterò.

Fran- Poi ti lascio libero: 3 dischi da portare con noi in ferie.

Enrico: Tu così non mi lasci libero! Posso dire quelli che porto io con me questa estate. E poi se portassi solo tre dischi sarei davvero un infelice…in ogni caso, eccoli:
-Local Natives “Gorilla manor”
-Caribou “Swim”
-Alessandro Fiori “Attento a me stesso”

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